Le nostre ferite sono spesso le aperture nella parte migliore e più bella di noi.
(David Richo)
La nostra società rifugge il dolore, negandolo, mentre tutti noi nella vita ci siamo trovati almeno una volta in un momento doloroso e di crisi e abbiamo sentito la necessità di combattere per andare avanti, ci siamo trovati di fronte l’inevitabilità delle sconfitte, delle delusioni e dei conflitti quotidiani, fino a quegli sconvolgimenti esistenziali, come una violenza o la perdita di una persona cara, che, spezzando un equilibrio preesistente, pongono colui che li ha subiti di fronte a una serie di interrogativi:
Perché proprio a me? Che senso ha quanto mi è accaduto?
La verità è che l’essere umano non è onnipotente e molte cose della vita non sono in suo potere. Per quanto ci sforziamo a controllare le situazioni e ad essere vigili incappiamo sempre nel dolore, nella fragilità e precarietà della nostra esistenza.
L’essere umano non è onnipotente ma è resiliente.
È possibile infatti ridefinire la propria sofferenza, che, al di là del dolore gratuito, può essere vista come un valore aggiunto, e fonte di maggiore sensibilità verso le bellezze dell’esistenza, nonché per le sofferenze altrui. Se è vero che certe ferite non si rimargineranno mai completamente, qualunque trauma, se non vissuto passivamente come punizione o negazione della felicità, può rappresentare, nel suo accadere repentino e imprevedibile, un’occasione di crescita personale. Non si tratta di definire per forza la crescita personale come un percorso che passa necessariamente per strade dolorose ma semplicemente di accettare il dolore come parte integrante della vita.
Se di per sé l’affermazione sembra banale in realtà non lo è, e implica la volontà di accogliere nella propria vita anche eventi dolorosi come normale conseguenza del vivere e dallo sperimentare, integrandoli nella nostra esistenza e attraversandoli con coraggio e con la fiducia di un “domani migliore”. Viviamo invece in una società e siamo immersi in una cultura che ci porta all’evitamemto e alla negazione del dolore e della sofferenza. (Basti pensare all’abuso che la nostra società fa di farmaci antidepressivi e ansiolitici)
Il malessere invece non è un sintomo da combattere o negare, ma da ascoltare.
Quando ci troviamo in un momento di dolore siamo più fragili, più esposti, ci sentiamo meno invincibili perché tocchiamo maggiormente la nostra condizione di vulnerabilità. È come se in quei momenti realizzassimo e toccassimo con mano che non possiamo controllare tutto. In quei momenti le nostre difese psicologiche si abbassano e per tale motivo siamo più “aperti”. Siamo più aperti al cambiamento, alla messa in discussione, al contatto con i nostri sentimenti più profondi, siamo più intimi con noi stessi. Questa situazione può creare smarrimento, paura, e addirittura fuga da ciò che stiamo provando. La naturale conseguenza è quella di rialzare le nostre difese, se possibile barricandoci più di prima. Ma se ci fermiamo un attimo in questa condizione abbiamo l’occasione di incontrare noi stessi in uno spazio più intimo e fertile, di conoscerci meglio, accettando la nostra fragilità impareremo a convivere con essa, senza lasciarci sopraffare, trovando le forze, gli strumenti, gli atteggiamenti positivi ed il rispetto per noi stessi.
Inoltre, il contatto più profondo con noi stessi, e la consapevolezza maggiore delle proprie risorse ci offrono la possibilità di valutare un cambiamento per poter eliminare le cause che hanno generato sofferenza, o semplicemente per migliorare la nostra qualità di vita. Ecco quindi che da una situazione dolorosa possiamo trarre qualcosa di prezioso, per noi, per la nostra vita, per quella di chi ci circonda.
Stefania Colombo