Stefania Colombo/ novembre 4, 2022/ articoli, Stefania Colombo/ 0 comments

Ispirato a “Il dono della terapia (I colibrì)” di Irvin D. Yalom, Paola Costa.

Recentemente leggendo il libro sopra citato mi sono imbattuta nelle considerazioni che Irvin Yalom fa sui terapeuti e, siccome le trovo assolutamente vere, vorrei condividerle commentandole con voi.
Perché?
Perché spesso i terapeuti sono figure mitizzate e ancora più spesso, la gente e molti dei nostri pazienti, pensano che, in virtù della professione che svolgiamo, siamo capaci di affrontare efficacemente ogni situazione della vita, e non soffriamo per le stesse pene di ogni essere umano.

NON E’ COSÌ!

1) Molto spesso i terapeuti sono persone che soffrono la solitudine.
Scrive Yalom “La psicoterapia è una vocazione impegnativa, e il terapeuta di successo dev’essere capace di tollerare la solitudine, l’ansia e la frustrazione, che sono inevitabili nel suo lavoro. È un paradosso formidabile che gli psicoterapeuti, sempre alla ricerca di intimità con i loro pazienti, debbano affrontare la solitudine come uno dei principali rischi della professione. Eppure troppo spesso sono creature solitarie, che passano tutta la giornata lavorativa rinchiusi in sedute con un paziente alla volta e raramente vedono i colleghi, a meno che non si sforzino di perseguire qualche attività collegiale nella vita.
Sì, certo, le sedute quotidiane sono imbevute. di intimità, ma è una forma di intimità non sufficiente a uniformare la vita del terapeuta.”

Inoltre aggiungo, questa forma di intimità pur essendo un’intimità nutriente, non è mai caratterizzata da uno scambio alla pari data la natura del rapporto:
“Una cosa è dedicarsi a un altro, una cosa completamente diversa è intessere rapporti alla pari per se stessi e per l’altro.”

Troppo spesso noi terapeuti trascuriamo i nostri rapporti personali. Il nostro lavoro diviene la nostra vita. Questo accade perché spesso il nostro lavoro coincide con la nostra passione e non potrebbe essere diversamente, a mio parere.

Concordo con il pensiero di Yalom che dice che alla fine della giornata lavorativa, dopo aver dato tanto di noi stessi, a volte ci sentiamo svuotati del desiderio di ulteriori rapporti. Inoltre i pazienti sono così grati, così adoranti, così idealizzanti che corriamo il rischio di apprezzare meno i membri della famiglia e gli amici, meno disposti a riconoscere la nostra onniscienza ed eccellenza in tutte le cose.

2) La concezione del mondo dello psicoterapeuta è di per sé isolante.
“Spesso perdiamo la pazienza verso i rituali sociali e la burocrazia, non riusciamo a sopportare rapporti fugaci e poco profondi e il chiacchiericcio di molte riunioni sociali.
In viaggio, molti di noi evitano il contatto con gli altri o tengono nascosta la loro professione, scoraggiati dalle reazioni pubbliche distorte nei nostri confronti.”

Personalmente non rivelo mai il mio lavoro in prima battuta perché, purtroppo, la figura dello psicoterapeuta incute ancora un po’ di soggezione a causa di falsi pregiudizi che ci attribuiscono, tipo presunte capacità di leggere la mente o di capire a priori la natura delle persone.

3) Spesso noi psicoterapeuti siamo tormentati da dubbi, e ci facciamo mille domande.
Non sappiamo a priori risolvere i dilemmi della vita dei nostri pazienti e spesso anche noi dubitiamo dell’efficacia del nostro lavoro.
Figuriamoci se abbiamo la soluzione ad ogni problema e nemmeno sappiano leggere ed interpretare la mente dei nostri pazienti.

Se il terapeuta non è un completo narcisista inconsapevole (ce ne sono purtroppo ancora alcuni) spesso è un essere dubbioso e dedito all’autoriflessione. Proprio la natura della nostra forma mentis, che ci guida nel nostro lavoro, a volte ci si ritorce contro. Potremmo faticare a stare nella leggerezza e tendiamo a leggere ed interpretare ciò che ci accade o accade ai nostri cari, più del dovuto.
A volte possiamo essere molto critici verso noi stessi.

4) fare lo psicoterapeuta non significa essere ricchi. Il mestiere del terapeuta non frutta tantissimi soldi. Non scegliete di fare i terapeuti per una questione economica. Sebbene questo lavoro possa assicurarvi una stabilità economica e un tenore di vita più che soddisfacente, occorrono anni per costruirsi questa professione e di conseguenza anche una stabilità economica.

Inoltre, bisogna considerare che il mestiere del terapeuta implica la costruzione di profonde relazioni intime che, sebbene appaganti e rigeneranti, chiedono anche una messa in gioco notevole da parte del terapeuta stesso.
Questo significa che, per dedicarsi bene a questa professione non è possibile avere in terapia un considerevole numero di pazienti (sebbene io sappia che esistono colleghi che arrivano a fare anche 8/ 10 sedute al giorno).
Non è possibile prendere in terapia più pazienti solo per avere un’entrata maggiore.
Molti terapeuti come me si dedicano principalmente all’attività clinica che certo non fa diventare milionari.

5) Gli psicoterapeuti non sono dei perfetti genitori o dei perfetti partner.
Al contrario penso che a volte sia proprio faticosa la posizione degli affetti che ci stanno accanto. Siamo spesso persone complesse, meditabonde e un po’ narcisiste… direi “intense”.
Inoltre, siamo umani e come tali esseri imperfetti, anche se in teoria sapremmo come agire, fuori dal ruolo di terapeuti, sbagliamo… come dice il vecchio detto:” Predichiamo bene e razzoliamo male”.

6) Gli psicoterapeuti non scelgono questa professione solo perché vogliono aiutare gli altri, spinti da un innato spirito altruistico.
Le ragioni che portano una persona alla scelta della propria professione sono complesse, figuriamoci quelle che portano alla scelta di questa professione. Il nostro lavoro non è un lavoro semplicemente di cura dell’altro. Spesso chi sceglie questa professione ha una storia familiare complessa alle spalle, ha imparato fin da piccolo a prendersi cura di qualcun altro per sopravvivere, ha sviluppato uno spirito intuitivo per cavarsela. In genere lo psicoterapeuta è una persona ferita, che cerca una propria guarigione anche attraverso la cura dell’altro. È proprio per questo che ogni terapeuta è chiamato ad affrontare seriamente un percorso di terapia professionale prima e durante tutta la sua professione. Un percorso di consapevolezza che lo porti a distinguere le proprie ferite da quelle del paziente, che lo aiuti a sciogliere i nodi della propria storia per poi potersi prendere cura delle storie dei propri pazienti.

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